Ci sono due modi di far parte dei gruppi sociali: spesso si differenziano, ma qualche volta si presentano anche insieme. Si può appartenere al gruppo e ci si può partecipare . L'appartenenza al gruppo è contrassegnata da un affidamento incondizionato (o quasi) dell'individuo alla collettività; l'individuo si identifica con i suoi valori senza metterli in discussione e accettando di essere catalogato in base a questa appartenenza: in una parola, fa parte in modo definitivo, nel bene e nel male, di quell'insieme. Quasi tutti «apparteniamo» alle nostre famiglie e ci sentiamo obbligati verso di esse senza troppo senso critico, perchè ce lo impongono le leggi di parentela e i sentimenti spontanei; ma a volte «apparteniamo» anche a una squadra di calcio, e ciò che conta di meno è che essa perda o vinca il campionato: sono i «nostri» e basta, saremmo disposti perfino a giustificare il più ingiusto dei falli pur di avvantaggiarli.
La partecipazione è qualcosa che deriva molto di più da una scelta, dalla volontà: l'individuo prendere parte a un gruppo perchè gli va e finché gli va, non si sente obbligato alla lealtà e conserva una distanza critica sufficiente per decidere se gli conviene o no continuare a starci. Tutti gli individui hanno bisogno di sentirsi appartenenti a qualcosa, strettamente legati a qualche cosa, sia che si tratti di un'associazione molto importante che di una un po' banale. Ci dà sicurezza, stabilità, ci definisce davanti a noi stessi, ci offre un punto di riferimento, anche se questa appartenenza spesso ci fa soffrire o ci costa sacrificio. Qualche volta è importante sentirsi a casa , sapere che si è circondati da persone con le quali si condividono sentimenti ed esperienza che nessuno può mettere in discussione. Quando ciò a cui apparteniamo si rompe, soffriamo un terremoto interiore da cui non è facile riprendersi. Per questo le fratture familiari o le delusioni amorose sono così particolarmente crudeli.
La partecipazione è qualcosa che deriva molto di più da una scelta, dalla volontà: l'individuo prendere parte a un gruppo perchè gli va e finché gli va, non si sente obbligato alla lealtà e conserva una distanza critica sufficiente per decidere se gli conviene o no continuare a starci. Tutti gli individui hanno bisogno di sentirsi appartenenti a qualcosa, strettamente legati a qualche cosa, sia che si tratti di un'associazione molto importante che di una un po' banale. Ci dà sicurezza, stabilità, ci definisce davanti a noi stessi, ci offre un punto di riferimento, anche se questa appartenenza spesso ci fa soffrire o ci costa sacrificio. Qualche volta è importante sentirsi a casa , sapere che si è circondati da persone con le quali si condividono sentimenti ed esperienza che nessuno può mettere in discussione. Quando ciò a cui apparteniamo si rompe, soffriamo un terremoto interiore da cui non è facile riprendersi. Per questo le fratture familiari o le delusioni amorose sono così particolarmente crudeli.
Ma per l'individuo è importante anche partecipare volontariamente e criticamente a diversi gruppi: in questo modo può conservare la sua personalità e non lasciarsi sopraffare dal gruppo, può scegliersi gli obiettivi, si sente capace di trasformarsi e di ribellarsi contro le avversità del destino, capisce che a volte è meglio «tradire» gli altri che continuare a seguirli ciecamente, «tradendo» se stesso.
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Il brano che ho voluto citare ci parla un po' di come si muove l'individuo nella società. E' importante avere solidi riferimenti, ma anche non essere troppo statici: il cohousing potrebbe offrire il meglio di entrambi i modi di pensare e di agire. Luogo Privato e Luogo Pubblico dove poter partecipare alla costruzione di un gruppo sociale che abbia uno stile di vita più leggero, ma anche più economico, più semplice, più partecipato, insomma ogni gruppo imboccherà un percorso che è unico e irripetibile.
Come può la Pubblica Amnistrazione favorire ciò?
Una prima proposta.
Una prima proposta è quella di dare la possibilità a cittadini e/o famiglie che siano già informate sul cohousing di poter avere degli spazi dove potersi liberamente gestire. Avere un "nido" dove è possibile incontrarsi per accrescere la conoscenza e fiducia reciproca, dove organizzare momenti di incontro con famiglie o cittadini meno (o per nulla informati) sul cohousing. Qualcuno mi dirà ma c'è la rete, le chat, social network, i blog, siti aziendali, forum. Certo vero, verissimo ma tali strumenti sono utilissimi, ma non possono sostituirsi al contatto umano. A mio avviso credo che la potenzialità del web siano enormi (ben oltre il Web 2.0), ma l'incontro reale e quello virtuale possono e devono coesistere, cercando di portare il meglio di ogni approccio.
Un approccio sul web permette di poter diffondere messaggi, in seguito il vedersi permette di capire meglio ciò che ci si è detto. Un limite del web è quello di non trasportare i sentimenti e gli stati d'animo che evitano le incomprensioni nelle comuni conversazioni. Ma il web da la possibilità di poter entrare in contatto con persone, che probabilmente mai avremmo incontrato nella vita e accomunati da qualche cosa ci si vede sul web e poi nel reale. Se ben dosato questo processo ciclico aumenta la qualità della nostra vita, se usato male si ricade nel concetto di "Amore liquido"di cui parla il socologo Z. Bauman.
Ma torniamo a noi, Torino, da questo punto di vista è apripista: è possibile avere dalle circoscrizioni degli spazi ed essendo questo ultime uniformemente diffuse sul territorio ciò non farà altro che aumentare la possibilità di incontro tra cittadini. Non dimentichiamo che anche le biblioteche possono diventare luogo dove organizzare incontri e discussioni sul tema, col vantaggio di trovare un pubblico curioso e magari in grado di cogliere gli aspetti più profondi del cohousing.
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